Walls (Buchprojekt) Fotos

2011

 

Muro: manufatto elementare, unità minima indispensabile per la realizzazione di qualsiasi costruzione. Così come una linea retta, il muro diritto e liscio come lo conosciamo, non esiste in natura, è frutto di una proiezione della mente e adempie a diverse funzioni, in fondo riconducibili a una sola, la difesa. Di sé dal nemico, dal caos, dai pericoli e dalle avversità della natura, per esempio. I muri sono costruiti per arginare, contenere, reggere, sorreggere e proteggere, definiscono spazi d’azione, confini di proprietà, frontiere, garantiscono un ordine. Per qualsiasi situazione di percepito disagio, pericolo, perturbamento la soluzione sembra essere quella di erigere muri, innalzare barriere contenitive, all’interno delle quali si crea un ambiente sicuro, nella speranza di bloccare l’incontrollato, l’estraneo, ciò che è eterogeneo ad un ordine. In questo senso ogni muro, nella sua essenza, è un elemento costitutivo e imprescindibile della civiltà, della convivenza tra gli uomini. Lo è nella vita concreta, come nelle immagini mentali e nelle metafore che esso risveglia.

Isolando una porzione circoscritta della realtá, la fotografia permette di vedere ciò che spesso sfugge alla vista perché immerso in un contesto e in una quantità di relazioni e flussi ambientali da cui è difficile estraniarsi. Lo scatto fotografico rappresenta cosí una sorta di sintassi minima che consente di dar vita ad un racconto. Definisce un punto, un segno conclusivo che interrompe il fluire del reale e focalizza lo sguardo su un dettaglio. In questo modo la fotografia apre e allo stesso tempo racchiude una narrazione, esattamente come fa il punto all´interno di un discorso.

Muri, pareti, muretti più o meno appariscenti, spesso mediocri. Muri spaventosi, come quello di Berlino che nella sua banale, pre-tecnologica presenza, ha affermato il primato dell’elementare, apolitica capacità di prevaricazione della pietra. Muri spesso inutili, troppo poco provvisori, tirati su in fretta, senza criteri estetici, abbandonati a se stessi e alla propria decadenza (perché è difficile far crollare un muro, serve una certa violenza per demolirlo, inversa ma molto più appariscente di quella che è servita per costruirlo). Sono diversi e lontani tra loro i muri che Kai-Uwe Schulte-Bunert raccoglie in questa serie di fotografie. Ognuno di essi è presentato come un’immagine a sé, in sé compiuta e circoscritta, isolata dal suo contesto ambientale. Ciò rende possibile fermare lo sguardo sull’ordinario, sul banale, sull’inavvertibile. I muri, infatti, costituiscono l´elemento compositivo di ogni ambiente, sono i supporti a cui appendiamo ció che riteniamo valga la pena essere visto. Ma i muri stessi, quelli non li vediamo. Solo quando osserviamo le immagini di una città distrutta ci rendiamo conto di quanti essa ne contenga, del fatto che essi sono in fondo la sua anima di pietra e cemento. Queste fotografie, dunque, ci fanno vedere l’ordinario nella sua forma irriducibile (perché non più riducibile a unità inferiori) e narrano al contempo ogni volta una storia diversa.

Sono fotografie che portano dritto al cuore di che cos’è un muro, della sua essenza. Soprattutto laddove i muri sono colti nella loro mancanza di aperture – persino le finestre sembrano fatte per stare chiuse – essi ci fanno pensare a quanto in fondo costruire un muro significhi da un lato fondare la propria elementare sopravvivenza e dall’altra limitare la propria naturale apertura verso il sublime e la natura. Immagini chiare e radicali, come lo è il soggetto al loro centro.

Le fotografie di Kai-Uwe Schulte-Bunert non pretendono di costruire un catalogo delle tipologie esistenti di muri. Sarebbe un’impresa destinata all’insuccesso e comunque inutile, non farebbe che reinserire le singole immagini in un contesto, di modo che non saremmo più in grado di leggere la semplice e minimale storia di un immagine, di un muro, ma solo il loro comune denominatore, la voce all’indice del catalogo.

Ogni muro invece racconta una storia a sé, indipendente dal contesto in cui si colloca, dal materiale di cui è fatto. Storie appese a un filo, raccolte in modo frammentario, che l’occasionalità ha portato per un attimo a costituirsi come immagini. Pertanto è come frammenti che esse vanno recepite, ognuno dei quali però, in virtù dei segni narrativi minimali che contiene, è in grado di ricostituire nuove relazioni con ciò che gli sta accanto, che lo segue, lo precede o che ritorna nella successione delle immagini. In questo sta l’apertura di questo tipo di lavoro, un’apertura che permette all´autore una strizzata d´occhio verso l´osservatore, accompagnandolo in un universo in cui ognuno è in grado di riconoscere o costruire relazioni proprie.

Un lavoro che diventa un´occasione per guardare ai muri entro i quali ci muoviamo quotidianamente, alla loro essenza brutalmente elementare, alla loro coercitiva banalità.

 

Stefania Carretti